D’ARIO PEDRUZZI – fotografo


Il mio incontro con i ragazzi, i figli, le famiglie dell’associazione “Costruire Integrazione” accadde nel 2010, attraverso un progetto sollievo in cui ho lavorato come educatore.

Una delle cose che più mi colpì, dall’impatto, con i ragazzi, tutti affetti da disabilità fisiche gravi, e con i loro genitori fu la sensazione di tranquillità e di serenità, quasi di rilassatezza che si respirava sia nel lavoro effettivo, a fianco delle persone , sia negli incontri con i genitori. Al contrario delle situazioni respirate fino ad allora, dove spesso erano la fretta, la necessità di ottenere dei risultati, perseguire degli obiettivi e delle scadenze, a dettare i tempi e perfino i rapporti tra educatore ed educato, tra persona e persona, ci fu improvvisamente il tempo per fermarsi, osservare, comprendere e vivere con. Non più vivere per.

Fu la prima volta in cui vidi in pratica, nella pratica quotidiana, sincera, del giorno-dopo-giorno, la conduzione di una vita che si modella e che accoglie le peculiarità, le eccezionalità di una persona con disabilità grave. Questo significò vedere orari, gesti, impegni e abbracci, riunioni, discussioni, programmazioni. Un sacco di tempo, un sacco di persone.

Pensavo, dentro di me, che potevo ritenermi fortunato ad avere incontrato persone che avessero a che fare con una grande onestà: l’onestà della forma fisica dei loro figli, e come questi stessi fossero, dal canto loro, onesti fino all’osso sia nella loro vita fisiologica, sia nella loro manifestazione dei bisogni, psicologica ed emotiva. Questa onestà di forma mi ha, in qualche modo, innamorato, proposi dunque di scattare delle foto ai ragazzi ed il risultato, tre anni dopo, è qui in questo percorso fotografico. Un percorso che a me sembra un fiore dallo stelo lungo e dalle radici profonde.

Le fotografie, sappiamo, sono immagini, ed i modi per produrre un’immagine sono molti e con caratteristiche peculiari. Ho deciso di utilizzare simbolicamente una serie di tecniche fotografiche (oppure anti-tecniche, cioè negazione delle teniche) per ottenere delle immagini che fossero, dal punto di vista fotografico, oneste il più possibile.

Ed è così che le immagini che si vedono nel percorso fotografico sono scattate su pellicola, attraverso una macchina fotografica analogica di medio formato, a luce naturale, scattate senza l’ausilio di esposimetri e senza il ritaglio in fase di stampa. Analizzerò qui di seguito ciascun simbolo e ciò che per me è significato.

La macchina analogica è stata scelta perchè la pura meccanica, senza circuiti elettronici, è un processo esatto, quindi onesto, una serie di cause-ed effetti stampati, forgiati, caricati nel metallo ed orchestrati per ottenere il nostro scopo. Così mi appariva il contesto in cui lavoravo con i colleghi educatori: lineare, chiaro, onesto.

La luce naturale, poiché è la luce che accomuna tutti. Se accendo una lampadina illumino me e la mia stretta cerchia di chi è nella stanza con me. Il sole, invece, splende per tutti; la cosa non può non piacere.

L’assenza di esposimetro: questo è uno strumento per misurare la luce ed ottenere così, attraverso la lettura dei dati che da, fotografie più o meno corrette, più o meno “perfette”. Non è della perfezione l’argomento di cui parliamo qui, bensì parliamo di perfette imperfezioni. Così, senza l’ausilio di questo strumento misuratore, ho potuto misurare solo le mie capacità (ed incapacità) di lettura della luce, le mie capacità (ed incapacità) di esposizione, le mie, appunto, perfette imperfezioni.

Il ritaglio in fase di stampa: durante la stampa di una foto, sia con processi antichi che moderni, è possibile operare una reinquadratura del soggetto, una eliminazione, nei limiti del possibile, dei particolari non graditi. Nel mio caso ho richiesto che le foto venissero stampate includendo la cornice del negativo, dimostrando che non vi è stato ritaglio né reinquadratura, e restituendo l’esatta immagine che nel momento dello scatto ho “pre-visto”.

La pellicola: sulle macchine analogiche si impressiona, esponendo alla luce per un breve periodo, una pellicola che registra l’immagine. L’analogia che ho percepito riguarda ciò che è dentro ciascuno di noi, che, esposto ad un’immagine, un avvenimento, registra su una specie di pellicola interna, e da questa sviluppa pensieri, fa emergere emozioni. Non a caso sia la pellicola sia la carta da stampa in bianco e nero si chiamano materiali sensibili.

D’ario Pedruzzi
fotografo ed educatore